Testo di Francesco Sabatini
Foto di Sara Furlanetto e Andrea Buonopane
I Monti Sibillini si estendono tra le province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata e, forse, la presenza della catena montuosa rende questa zona diversa dal resto delle Marche. Chiamate le “Marche zozze”, con un velato disprezzo dagli altri ma con orgoglio da chi ci vive, sono posizionate al centro dell’Italia, al centro di una vaga idea d’Italia. I marchigiani del sud non così romagnoli come i cugini pesaresi né tantomeno “regniculi” (abitanti del Regno delle due Sicilie) come i cugini abruzzesi; non saranno le colline toscane ma quelle che ci sono non sono da buttare via; non sarà il mare della Sardegna ma nemmeno quello della Riviera; ed infine, il piccolo massiccio dei Sibillini, che, nonostante la vicina presenza del Gran Sasso gli ricordi che le montagne vere sono altre, è comunque di una certa bellezza. Insomma, una situazione intermedia, ma come diceva il filosofo: in medio stat virtus, la virtù sta nel mezzo.
È proprio in mezzo ai Sibillini che nasce uno dei prodotti più rappresentativi di queste terre: il ciauscolo. Un salume di maiale spalmabile che ha la straordinaria capacità di stupire chiunque lo mangi per la prima volta. Spesso accade che, alla vista del grasso insaccato, molti siano titubanti di fronte un prodotto di maiale poco stagionato ma, una volta assaggiato, non v’è dubbio che il suo sapore travolga e incanti. Una vera e propria golosità, difficilmente ci si ferma alla prima fetta, forse ciò che lo rende così godurioso è proprio il fatto che sia spalmabile.
Il ciauscolo, la cui pronuncia locale suona più come “ciajuscolo”, nasce a Visso, comune situato all’inizio della Val Nerina ai piedi del Monte Bove. Non è chiaro il motivo per cui si fa risalire la sua origine al comune dell’entroterra maceratese, forse per la vicinanza con Norcia, città della norcineria per eccellenza. In epoca medioevale, i norcini (coloro che macellavano il maiale) grazie alla loro conoscenza anatomica del suino diventarono esperti chirurghi e nella vicina Preci nacque, nel XVI secolo, la rinomata scuola di chirurgia preciana. Alcuni sostengono che tale conoscenza sia collegata ai culti della dea Cibele che si svolgevano tra i mitologici Sibillini in epoca romana. In quest’epoca, più che il maiale venivano allevati gli ovini che, pascolando da millenni tra le cime dell’appennino marchigiano, hanno reso spogli i rilievi montuosi donando loro un fascino unico. L’allevamento del maiale è stato introdotto, in maniera consistente, solo in epoca longobarda; l’Editto di Rotari del 643 mostra come la categoria dei “porcari”, gli allevatori di maiali, fosse la più importante in quanto la più tutelata. In terra marchigiana, il maiale era quasi un membro della famiglia, talmente prezioso che i giorni della “pista” (macellazione del maiale) erano giorni di festa legati a riti ancestrali: il maiale doveva essere macellato con la luna calante altrimenti la pista sarebbe andata male.
Da quasi cent’anni, a Visso, a tramandare l’antica arte della norcineria c’è la famiglia Calabrò. Samuele Calabrò, la quarta generazione, ci racconta che fu il bisnonno ad aprire la macelleria nel centro storico nel 1936. Oggi la vecchia macelleria è inagibile a causa del terremoto del 2016 che ha visto Visso come uno degli epicentri dello sciame sismico. A quattro anni dal terremoto purtroppo la situazione è rimasta pressoché invariata, i turisti che un tempo venivano qui a passare l’estate nelle seconde case oggi si sono trasformati in turisti da weekend. Ma soprattutto la storica macelleria ha momentaneamente perso uno dei suoi fiori all’occhiello: come racconta Samuele, vicino ai vecchi locali, c’era la sala dove si stagionavano i salumi, una cantina del 1300 le cui muffe secolari donavano profumi unici. Nelle parole di Samuele si sente la nostalgia di quel luogo e la voglia di ritornare a vivere la ricchezza culturale del centro storico.
Nonostante le difficoltà Samuele, sotto la guida attenta del padre Giorgio, continua a realizzare deliziosi prodotti e su tutti spicca il ciauscolo che, nella macelleria Calabrò, viene chiamato Vissuscolo. Il motivo di questo nome è legato alla scelta di non far parte del marchio Ciauscolo I.G.P (registrato nel 2009), il cui disciplinare li avrebbe costretti a cambiare la ricetta che la famiglia si tramanda dal 1936. Ovviamente l’idea di cambiare la ricetta non è stata nemmeno presa in considerazione, cambierà il nome ma la sostanza rimane quella che si è tramandata in cent’anni di storia. La tematica non è nuova nel mondo delle denominazioni: da una parte c’è l’esigenza di preservare un prodotto, dall’altra, uniformandolo per finalità commerciali, si rischia di perdere le sue potenzialità di sapere reinventare le tradizioni stando a passo con i tempi che cambiano. Ad esempio, nella macelleria Calabrò se ne trovano di tre tipi: quello classico (con aglio e vino bianco), al fiore di finocchio e al tartufo. Senza svelarci i segreti della ricetta di famiglia, Samuele ci spiega che a rendere il ciauscolo un salume spalmabile, quasi simile ad un paté, sono due fattori: il primo è che la carne è tritata molto finemente (spalla, prosciutto, lombo e pancetta), ma è soprattutto la presenza del lardo che permette di mantenere la sua morbidezza anche dopo due o tre mesi.
Il ciauscolo è un salume che si presta ai molteplici usi: può essere spalmato sul pane e mangiato crudo o cotto al forno, può essere usato per insaporire i sughi o le zuppe. Associato da sempre ai momenti conviviali e alla cultura popolare, il ciauscolo è un gustoso spuntino che, accompagnato a un bicchiere di vino, racconta l’essenza stessa di queste terre, genuine e veraci. Passeggiando tra le macerie del borgo devastato, ragioniamo su come sia potente e allo stesso tempo fragile una tradizione legata ad un gusto e ad un sapore. La tradizione del ciauscolo nella famiglia Calabrò è un testimone che continua a far sopravvivere usi, costumi e una visione del vivere radicata alle pendici dei Monti Sibillini, una multiculturalità da preservare.
In posizione diametralmente opposta, a sud e sul versante est dei Sibillini, sotto la faccia severa e rocciosa del Vettore, si apre la vallata del Tronto nella provincia di Ascoli Piceno. Situata tra i Monti Sibillini e i Monti della Laga, la valle del Tronto è attraversata dalla Salaria, importante via consolare romana. Lungo la Salaria, ad Acquasanta Terme, si trova una vera boutique della carne: la macelleria Petrelli. Tra le colonne e gli archi di travertino sono appesi prosciutti, guanciali, culatelli e, avvinghiata come un serpente, riposa la salsiccia. La salsiccia della macelleria Petrelli non ha un nome proprio ma lo meriterebbe perché non è paragonabile a nessun’altra, per molti è semplicemente la salsiccia di Acquasanta.
Nel periodo estivo, all’entrata della macelleria c’è una fila di persone che attende con pazienza il proprio turno, c’è chi viene di proposito o chi si trova qui per una scampagnata e decide di fermarsi a prendere qualcosa per pranzo. La salsiccia non può mancare, una carne molto tenera che si può spalmare sulle fette di pane. Fatta con la spalla, la pancetta e un po’ di prosciutto, è una sorta di ciauscolo magro inventato da Luigi Petrelli per andare incontro ai gusti di chi non ama il grasso. Una volta tritata la carne, vengono aggiunti sale, pepe, rosmarino e aglio macinati finemente; appena pronta, la salsiccia non è rossa (perché non trattata), ma grazie al sale e alle spezie la carne perde umidità, matura e prende il suo colore rosato. Appese alle sue spalle, avvolte lungo un’asta d’acciaio, ci sono la salsiccia normale, la versione piccante e quella di fegato; per la quantità si va ad occhio, Luigi si avvicina alla salsiccia con un grande coltello e indica la lunghezza desiderata. Chi l’assaggia dice sempre che “cruda è buona, ma cotta è spettacolare… però anche cruda è fantastica…”, in un infinito gioco godurioso che, una volta cominciato, è difficile fermare. È una salsiccia che può essere consumata in mille modi: cruda, cotta alla brace, come sugo per la pasta oppure la si lascia stagionare in frigo e diventa un ottimo salamino perché, a differenza del ciauscolo, la minore presenza di grasso ne permette l'essiccazione. Un prodotto eccezionale, unico, che trasmette tutta la passione e l’amore di Luigi per il suo lavoro.
A ottant’anni, Luigi racconta con gli occhi da bambino la sua storia e quella della sua macelleria. Continua con entusiasmo a fare il mestiere che nel 1967 scelse per restare ad Acquasanta accanto al padre anziano: “Ai vecchi se togli l’affetto della famiglia è come se togliessi la vita”. Le sue parole arrivano forti al cuore in questo momento storico, nel pieno di una pandemia che ci ha costretti a restare distanti. Senza sapere come tagliare la carne, dopo aver lasciato l’ottimo lavoro in ferrovia, decise di mettersi in proprio e aprire una macelleria. Un tempo, macellare le bestie era una pratica molto comune e ogni famiglia usava, nel periodo invernale, ammazzare il maiale per ricavarne i prodotti da mangiare tutto l’anno a venire quindi, grazie alle conoscenze familiari, Luigi ha cominciato a raffinare l’arte della norcineria e a scrivere le ricette che da allora sono rimaste invariate.
Mentre parla, Luigi continua a maneggiare con una tale passione le carni che trasmette un senso di rispetto profondo per il suo lavoro e per i gli animali. Racconta dei suoi prodotti e delle ragioni che rendono speciale ognuno di loro, come la coppa di testa, un modo antico e saporito per non sprecare le parti meno nobili del maiale. Dalla piccola macelleria aperta nella frazione di Centrale le cose sono cambiate di molto e oggi, dopo cinquant’anni, oltre a due macellerie, insieme alla famiglia, Luigi Petrelli ha creato un circuito chiuso che garantisce la qualità delle carni e il rispetto degli animali: gestisce l’allevamento di maiali, ovini e di bovini, e il mattatoio. Luigi racconta con orgoglio della stalla appena realizzata e dai suoi occhi sembra trasparire la voglia di nuovi progetti.
Le Marche ci hanno lasciato un verace senso di convivialità, un calore, una gioia di vivere forte e genuina che viene fuori da tutti i suoi prodotti. Le esperienze riportate nell’articolo, oltre che averle vissute nei primi giorni di cammino della seconda tranche del progetto Va’ Sentiero (dalle Marche fino alla Puglia), fanno parte della cultura di chi vi scrive che in questi monti, ad Acquasanta Terme, ci è nato e cresciuto. Nascosti tra le montagne dei Sibillini si trovano non solo prodotti unici ma veri momenti da gustare. Un mondo senza troppi fronzoli, senza troppi ricami, che nella sua semplicità esprime la virtù del buon vivere.