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Il Gran Sasso, la pecora e lo zafferano

Testo di Francesco Sabatini

Foto di Sara Furlanetto

       Alle pendici del versante aquilano del Gran Sasso si aprono ampi altipiani, luoghi sperduti nel pieno centro dell’Italia. Tutt’attorno, arroccati tra le montagne, si sviluppano suggestivi borghi semiabbandonati. Quella che un tempo era un’area ricca e fiorente - grazie al commercio della lana - si è trasformata in una terra di emigrazione. Negli ultimi decenni qualcosa è cambiato: c’è chi ha scelto di restare e di valorizzare le risorse che in passato hanno reso importante l’Abruzzo. Grazie a prodotti straordinari come il canestrato di Castel del Monte o lo zafferano di Navelli sempre più turisti scoprono il fascino antico dei paesaggi ai piedi del Gran Sasso.

Veduta di Castel del Monte

       A Castel del Monte siamo andati a visitare l'Azienda Zootecnica Gran Sasso dove abbiamo incontrato Giulio Petronio che, grazie al sostegno del Parco Nazionale del Gran Sasso e di Slow Food, è riuscito a salvare il Canestrato di Castel del Monte: un formaggio i cui sapori sono la sintesi di secoli e secoli di allevamento della pecora. I borghi di Castel del Monte, Santo Stefano di Sessanio e Rocca Calascio sorsero ai piedi di quello che era il pascolo dell’imperatore Federico II di Svevia: Campo Imperatore - dove, fino all’unità d’Italia - vi pascolavano milioni di pecore. Il ricchissimo commercio della lana generò l’interesse di tutti i potenti del continente europeo.

Gli abitanti di questi borghi sono pastori da sempre, dietro le loro greggi hanno percorso migliaia di chilometri lungo i tratturi – enormi strade verdi che permettevano il pascolo delle pecore durante la transumanza – verso il Tavoliere delle Puglie. Anche il padre di Giulio era un pastore, ma sperava per il figlio un futuro diverso: fare il pastore era un lavoro duro, difficile e anacronistico. Nonostante la volontà del padre, Giulio non poté fare a meno di seguire il suo amore per questi animali: “Pastori si nasce, è qualcosa di innato che ti spinge avanti nonostante le difficoltà”, ci dice sorridendo.

Giulio Petronio ci racconta la sua storia

       Quando, a fine anni ’70, Giulio iniziò la sua carriera di pastore, il valore della lana era scaduto ed era in atto la conversione verso razze di pecore più adatte alla produzione di carne; lui scelse di puntare anche sulla produzione del formaggio inserendo nel suo gregge le pecore Lacaune, rinomate per l’ottima qualità del latte. In passato il formaggio era un prodotto secondario, che veniva consumato in famiglia o dato in gestione ai salaroli. I salaroli si appostavano nelle aree fluviali lungo i tratturi e con i vimini – che abbondavano lungo i fiumi - realizzavano i canestri dove veniva conservato il formaggio dopo la salatura.

       Il Canestrato di Castel del Monte deve il suo nome proprio all’usanza di far stagionare il pecorino all’interno di canestri di vimini. Giulio ci spiega che quella del canestrato è una lavorazione banale: alla cagliata frantumata finemente (la maggiore fuoriuscita del siero favorisce una più lunga stagionatura) viene aggiunto soltanto del sale marino. “A rendere unico questo prodotto sono i profumi e le essenza dei fiori che la pecora mangia a Campo Imperatore, un cucuzzolo sospeso in mezzo a due mari”, conclude Giulio. Da uomo del fare qual è, dopo tanto parlare ci invita ad assaggiare il suo canestrato. Davanti ai nostri occhi taglia a metà una forma di sette mesi che emana un profumo intenso ma delicato; lo stesso contrasto si rivela al gusto, saporito ma non salato. Dopo averlo mandato giù rimane in bocca un gusto persistente che attraverso le sue note amare fa emergere nuovi e differenti sapori.

Il Canestrato di sette mesi che abbiamo assaggiato e Giulio in mezzo ai suoi formaggi

      Oggi il Canestrato di Castel del Monte è un prodotto di eccellenza conosciuto in tutto il mondo: “Quello che è successo è stato un miracolo. Se fosse successo quarant’anni fa sarebbe stato un deterrente all’emigrazione” ci dice Giulio con espressione malinconica ma tenace. Prima di andare via ci svela l’ultimo sogno nel cassetto, quello di tornare a ridare valore alla lana. Gli si illuminano gli occhi quando parla delle pecore nere fatte arrivare dalla Sardegna o delle Gentili di Puglia che è riuscito a salvare dalla scomparsa in Abruzzo. Nel frattempo, ci racconta delle associazioni e delle nuove iniziative che stanno nascendo tutt’attorno, molto spesso guidate da giovani che lui sostiene ed incoraggia con entusiasmo.

Scorcio dell'altopiano di Navelli visto dal borgo

        Ritroviamo gli stessi entusiasmo e tenacia in un altro produttore, Alfonso Papaoli che, a Navelli, produce zafferano. Prima di incontrarlo ci perdiamo nel dedalo di vie e viuzze del borgo; camminandoci dentro si è assaliti da una duplice sensazione: alla tristezza dell’abbandono si accosta lo stupore dell’imponenza dei palazzi di questo piccolo paese. Alfonso ci racconta che è proprio grazie allo zafferano che, un tempo, le famiglie si sono potute permettere di costruire palazzi così grandi. A sovrastare il paese c’è il palazzo baronale della famiglia Santucci; furono loro ad importare lo zafferano a Navelli dalla Spagna nel XIII.

Navelli fu il primo luogo in Italia dove venne coltivato il celebre bulbo e per molto tempo è stato il punto di riferimento per la produzione del nostro paese. Lo zafferano prodotto sull’altipiano di Navelli fa parte della Denominazione di Origine Protetta Zafferano dell’Aquila, ma molti ritengono che quello che cresce qui sia unico. L’altipiano di Navelli si estende nella parte meridionale del massiccio del Gran Sasso; è circondato dalle montagne e gode di un microclima particolare (più mite rispetto al più alto Campo Imperatore), perfetto per la coltivazione del pregiato bulbo. Inoltre, la composizione carsica del suo terreno permette il drenaggio delle acque, che è necessario per la riuscita di un buon prodotto.

Alfonso ci spiega che, nonostante sia un luogo predisposto per la coltivazione dello zafferano, non tutti i terreni dell’altipiano sono uguali e, per capire quali fossero le zone più adatte, si è affidato all’esperienza dei vecchi del paese. “Un bagaglio culturale che si stava perdendo” ci dice Alfonso, perché la coltivazione dello zafferano a Navelli stava per essere soppiantata dalla zootecnia. Quando nel ’97 decise di intraprendere la sua avventura imprenditoriale molti lo guardavano storto, non credendo più nella risorsa simbolo del paese.

Alfonso Papaoli e lo zafferano di Navelli

       Oggi, dopo più di vent’anni dall’inizio della sua avventura, si è arrivati al paradosso che la produzione dello zafferano di Navelli non riesce a soddisfare la domanda del mercato. La coltivazione dello zafferano non è semplice e ha bisogno di moltissima manodopera per la messa a dimora dei bulbi, la raccolta e la separazione dei pistilli dal fiore. Un tempo le famiglie erano numerosissime e prima di iniziare la giornata tutti i componenti della famiglia si recavano nei campi a raccogliere i fiori prima che schiudessero. Alfonso ci racconta con entusiasmo la gioia di arrivare nel campo e vedere la distesa di fiori viola che segnano l’altipiano alla prime luci dell’alba. “Cerchiamo di raccogliere il fiore prima possibile perché chiuso è più facile da raccogliere e le qualità del pistillo rimangono inalterate”. Alfonso ci tiene a sottolineare che vende il suo zafferano soltanto in pistilli perché così se ne garantisce al cento per cento la qualità del prodotto.

       Un altro paradosso è che, a Navelli, non esista nessuna ricetta tipica con lo zafferano: era principalmente una fonte di reddito. Quello che invece non poteva mancare in una casa di Navelli era un tegame di terracotta pieno di ceci sopra al fuoco, il vero piatto tipico. Qui, di ceci, ne esistono due varietà autoctone: il bianco, dalla forma piccolina e liscia, e il rosso caratterizzato dalla buccia rugosa. Entrambi erano quasi scomparsi, in particolare quello rosso che non se ne trovava più. Alfonso ne ha trovati una manciata in un sacchettino abbandonato in un vecchio pagliaio. “Ne avevo sempre sentito parlare ma non li avevo mai visti”, ci dice. Grazie a questo fortunato ritrovamento Alfonso è riuscito a salvarne la produzione, che oggi si è allargata ad altri coltivatori. I ceci di Navelli sono diventati presidi Slow Food: un ottimo modo per preservare il simbolo della vita contadina di queste terre.

Una confezione di cece bianco e l'interno del laboratorio di Alfonso

       Il Canestrato di Castel del Monte e lo Zafferano di Navelli sono soltanto due della miriade di prodotti che si possono incontrare alle pendici del Gran Sasso. Prodotti che rappresentano qualcosa in più di semplici risorse economiche o turistiche: sono dei veri e propri scrigni di storie e culture. Grazie a persone come Giulio Petronio e Alfonso Papaoli - forti e gentili come solo gli abruzzesi sanno essere- si continuano a tramandare i sapori di queste terre sospese nel tempo.